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L’Afpak tra dilemmi e incertezze

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A dieci anni dall’intervento statunitense e della NATO, l’Afghanistan si trova in una condizione sempre più difficile. Unitamente all’incertezza del futuro politico afghano si registra negli ultimi mesi l’incapacità degli Stati Uniti di gestire l’intricata situazione interna; questa è legata a una sorta di “dilemma” nel considerare il proprio approccio nei confronti del Pakistan, paese indispensabile per la sua posizione geopolitica. Islamabad non intende abbandonare l’influenza sull’Afghanistan poichè percepisce la propria sicurezza legata a doppio filo con Kabul. Il recente avvicinamento tra Karzai e l’India può complicare la situazione.

 

Gli ultimi mesi in Afghanistan sono stati contraddistinti da una recrudescenza della violenza. L’uccisione di figure di primo piano della politica afghana, tra le quali Ahmed Wali Karzai e Burhanuddin Rabbani, l’attacco talebano all’ambasciata statunitense e al comando NATO a Kabul, nonché l’incremento degli scontri militari nella zona sud-orientale del paese testimoniano come la situazione afghana sia sempre più delicata. L’incertezza sembra l’espressione più adatta per descrivere il futuro del paese. È sempre più evidente la debolezza politica del governo Karzai, isolato a livello internazionale, nonostante possa contare sull’appoggio recentemente offerto dall’India. La stessa strategia statunitense nei confronti dell’Afghanistan sembra aver raggiunto un punto di non ritorno per il fallimento di alcuni importanti obiettivi e la crescente instabilità del paese. Cina, Iran, India, ma soprattutto Pakistan, ricopriranno un ruolo sempre più importante, con il rischio di un incremento della competizione regionale. Unitamente alle incertezze caratterizzanti il futuro afghano esiste una sorta di “dilemma” nel considerare il proprio approccio verso l’Afghanistan, riscontrabile non solo nella strategia di Washington, ma in parte anche in quella di Pakistan e India.

 

– Le ipotesi dell’uccisione di Rabbani: un sintomo dell’incertezza afghana

 

La recente uccisione di Rabbani indica come sia difficile comprendere la politica interna afghana senza collegarla, assieme alla competizione tra i diversi gruppi etnici del paese, anche agli obiettivi dei diversi Stati interessati al futuro afghano dopo l’annunciato ritiro statunitense.

Burhannuddin Rabbani era una delle maggiori figure del variegato panorama politico di Kabul. Presidente dell’Afghanistan tra il 1992 e il 1996, fu un importante punto di riferimento per la resistenza dei mujaheddin contro i sovietici durante gli anni ‘80, contando sul concreto appoggio pakistano. Successivamente alla caduta del suo governo, rovesciato nel 1996 dai talebani, guidò la resistenza dell’Alleanza del Nord contro il regime. È stato accusato di numerosi ed efferati delitti, ma, nonostante fosse la figura più importante del gruppo etnico tagiko, era considerato un nazionalista afghano, capace di favorire l’unità del paese nonché il dialogo tra le diverse etnie. Non a caso, Rabbani ha rappresentato negli ultimi anni un fondamentale “ponte” tra Karzai, pashtun, e le etnie del nord, tagiki, hazara e uzbeki. Per questo motivo l’ultimo ruolo pubblico di primo livello ricoperto da Rabbani è stato quello di capo dell’Afghan High Peace Council, avente come obiettivo un ipotetico dialogo con i talebani in nome della riconciliazione nazionale.

E’ poco chiaro chi siano i veri mandanti della sua uccisione e, almeno per il momento, è possibile ricorrere solamente ad alcune ipotesi che offrono degli interessanti spunti legati al contesto geopolitico e alle strategie di Stati Uniti, Pakistan, India e Iran.

In un primo momento l’uccisione è stata attribuita ai talebani, accusati di non voler continuare il dialogo con il governo afghano e gli Stati Uniti: in questo modo avrebbero dimostrato l’inesistenza di una possibile alternativa al loro governo. In realtà, più che a una mancanza d’interesse nei confronti di un’ipotetica trattativa con Karzai e gli Stati Uniti, i talebani avrebbero eliminato quella che consideravano una delle figure più importanti della politica afghana. Rabbani poteva rappresentare un pericoloso concorrente per il dopo-2014, un’alternativa credibile al debole governo Karzai. Un’altra spiegazione è legata alla recente recrudescenza degli attacchi e degli scontri militari. Gli Stati Uniti hanno come obiettivo, nonostante l’annunciato ritiro, la realizzazione di una base militare permanente almeno fino al 2024. Per rendere effettivo questo scopo necessitano però dell’accettazione da parte degli afghani di una situazione di fatto: ovvero che la loro presenza risulterà indefinita nel tempo. I talebani, al contrario, dimostrerebbero all’opinione pubblica afghana, non solo che la presenza statunitense è sgradita, ma anche che l’eventualità di una sua indefinita permanenza sia impossibile. I talebani utilizzano a questo proposito una tattica psicologica più che un’adeguata forza militare, colpendo determinati luoghi e personaggi simbolo, come ad esempio l’ambasciata statunitense a Kabul e Rabbani. In ogni caso, la stessa visuale negativa della presenza permanente degli Stati Uniti espressa dai talebani è dichiarata, più o meno chiaramente, anche da Iran, Cina, Russia e Pakistan.

I talebani avrebbero inoltre visto nella figura di Rabbani un possibile ostacolo all’ascesa dei pashtun. L’eliminazione dell’ex presidente potrebbe essere letta come la volontà di minare i rapporti tra Karzai e le etnie del nord. In questa maniera i pashtun potrebbero premere maggiormente sul governo, con evidenti ripercussioni negative per tagiki, hazara e uzbeki. Vista la debolezza dell’amministrazione Karzai, la quale non gode dell’appoggio di tutte le etnie, come dimostrato dalle vicende legate alle ultime elezioni, non è da escludere che l’assassinio possa fomentare lo scontro tra le differenti componenti etnolinguistiche nell’intero Afghanistan (L’inaugurazione del Parlamento afghano. L’isolamento di Karzai e i risvolti geopolitici).

L’alternativa Rabbani a Karzai, garanzia di un ruolo maggiormente importante per l’Alleanza del Nord e per le etnie settentrionali, rappresentava un fattore intollerabile non solo per i pashtun, ma anche per il Pakistan. Islamabad avrebbe valutato negativamente l’influenza crescente di Rabbani, il quale aveva da diversi anni un legame particolare con Iran e India. L’ascesa di Rabbani a Kabul avrebbe potuto comportare un conseguente diverso ruolo per l’India. Nell’ottica pakistana la presenza di Nuova Delhi in Afghanistan è valutata come una sorta di pericoloso accerchiamento geopolitico. Al contrario, un governo alleato a Kabul favorirebbe il contenimento dell’ascesa economica e militare del nemico di sempre in Asia Meridionale. L’Afghanistan non è solamente considerato il territorio di “ritirata” strategica in caso d’invasione indiana, ma anche un indispensabile alleato: avere sia ad ovest che ad est degli Stati nemici è una prospettiva altamente negativa per gli interessi strategici di Islamabad. Inoltre, il fatto che la linea Durand non sia completamente riconosciuta dal governo di Kabul, testimonia l’esistenza di un’ulteriore preoccupazione pakistana, ovvero il problema legato al nazionalismo pashtun. Vista l’instabilità statuale e le passate mire di alcuni governi afghani verso le aree tribali pakistane (FATA) e la Khyber Pakhtunkhwa, il Pakistan intende agire attivamente in Afghanistan anche per motivi legati alla propria sicurezza interna. Questa è una delle richieste che Islamabad ha sempre posto nei confronti degli Stati Uniti. Storicamente, il Pakistan ha favorito la caduta di determinati governi o l’ascesa di personalità gradite in Afghanistan per il suo successivo controllo; l’ipotesi che anche in questa occasione il Pakistan e l’ISI abbiano giocato un ruolo fondamentale non sarebbe dunque improbabile. In ogni caso, non solo l’India può aver subito un contraccolpo negativo dall’uccisione di Rabbani, ma anche l’Iran: Tehran vedeva in Rabbani una figura di primo piano per il soddisfacimento dei propri interessi. Le dichiarazioni del responsabile per l’Afghanistan del ministero degli esteri iraniano, Mohsen Pak-Ayeen, testimoniano come l’Iran abbia perso un importante alleato (Iranian FM Official Blames NATO for Rabbani’s Assassination). Il diplomatico individua negli Stati Uniti e nella NATO i mandanti dell’esecuzione di Rabbani, poiché il loro obiettivo sarebbe quello d’indebolire Karzai e prevenire l’avvento di personalità politiche troppo vicine a Tehran. L’uccisione di Rabbani sarebbe dunque legata a quella di Ahmed Karzai, in modo da ricattare il governo affinchè accetti le richieste statunitensi e della NATO. Per quanto concerne il governo Karzai, è indubbio che gli Stati Uniti stiano esercitando una certa pressione su di esso e che sia sempre più debole. L’attuale amministrazione a Kabul risentirà dunque fortemente dell’avvenuta uccisione di Rabbani. Innanzitutto Karzai ha perso un importante interlocutore, fondamentale per il dialogo con le etnie settentrionali, le quali osserveranno con maggiore negatività le aperture verso i talebani, sponsorizzate da Karzai. Questi ultimi, nonostante abbiano dimostrato recentemente un concreto interesse per la riconciliazione, giudicano negativamente il presidente per il suo stretto legame con tagiki, hazara e uzbeki (What the Taliban Want). Il rischio è che il già intricato mosaico afghano sia contraddistinto, unitamente alle pressioni esercitate dall’esterno, da un’elevata instabilità interna foriera di possibili scontri etnolinguistici dalle conseguenze imprevedibili anche per i paesi vicini. Tutto ciò è inoltre collegato al sempre più delicato rapporto tra Washington e Islamabad: in queste ultime settimane alcuni analisti hanno parlato di un ipotetico intervento di terra statunitense in Pakistan.

 

– I dilemmi statunitensi, pakistani, indiani e l’alleanza tra Karzai e l’India

 

Il deteriorarsi delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan sta catalizzando l’attenzione dei media pakistani. In questi giorni si è parlato di un possibile intervento di terra statunitense nelle FATA per il sostegno offerto dal Pakistan alla rete Haqqani. L’organismo, fondato da Jalaluddin Haqqani, attualmente guidato dal figlio Sirajuddin e basato nel Waziristan settentrionale, opera lungo la linea Durand dagli anni dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. Gli obiettivi strategici statunitensi a Kabul sarebbero colpiti proprio dalla rete Haqqani, considerata la responsabile di numerosi attentati. Il governo pakistano ha risposto alle accuse, ricordando che la rete venne creata e finanziata dalla CIA, in funzione anti-sovietica. In ogni caso la politica statunitense nei confronti del Pakistan sembra essere legata a un dilemma: il Pentagono, nonostante mantenga solidi rapporti con l’apparato militare pakistano, e la CIA propenderebbero per un incremento dell’intervento statunitense in Pakistan, aumentando i bombardamenti dei droni e attivando anche un’azione di terra; il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca sembrano invece più cauti, soprattutto per la mancanza di tempo in vista delle elezioni del prossimo anno e per la grave crisi economica. Esistono però ulteriori motivi geopolitici che rendono un attacco ad Islamabad altamente improbabile. Nonostante sia diviso da rivalità etniche, Islamabad ha un importante collante caratterizzato dalla religione, una popolazione di 177 milioni di abitanti, nonché un potente esercito dotato di armamenti nucleari. In queste settimane, i partiti politici principali, nonostante gli equilibri del paese rimangano precari, sembrano aver ritrovato una certa unità nazionale di fronte alle minacce statunitensi. Inoltre, il Pakistan rimane, data la sua posizione strategica, un alleato troppo importante per Washington, soprattutto per i rifornimenti militari e logistici da inviare in Afghanistan via Karachi. E’ probabile che ci sia un’intensificazione dei bombardamenti sulle FATA, ma non un intervento di terra, nonostante il Pakistan richieda da tempo la necessità di porre il proprio veto alle azioni aeree sul suo territorio. Islamabad può contare sul sostegno attivo di Arabia Saudita e Cina e ha recentemente migliorato le relazioni con Iran e Russia; ben conscia del proprio ruolo strategico per gli Stati Uniti, ha aumentato il suo potere negoziale. La stessa India osserva negativamente un ipotetico intervento di Washington in Pakistan. Nuova Delhi è irritata dai fallimenti statunitensi a Kabul, così come paventa l’esplodere di una guerra civile in Afghanistan. Un conflitto esteso al Pakistan renderebbe l’area altamente instabile, con ripercussioni negative per la stessa India; si potrebbe registrare un aggravamento della conflittualità in Kashmir, senza dimenticare la presenza di un’elevata minoranza musulmana nel territorio indiano. La politica di Nuova Delhi degli ultimi mesi nei confronti del Pakistan sembra andare in tutt’altra direzione, come dimostrato dai recenti incontri bilaterali. A questo proposito una soluzione del decennale problema legato al Kashmir potrebbe comportare delle conseguenze positive anche per l’Afghanistan. Infatti, la rete Haqqani e altri organismi collegati sono storicamente percepiti dal centro militare e politico pakistano come un importante strumento di difesa in funzione principalmente anti-indiana. Un nodo fondamentale da risolvere è essenzialmente il “dilemma della sicurezza” del Pakistan. Islamabad non potrà agire militarmente contro l’autonomo sistema legato ad Haqqani se prima non vedrà soddisfatte le necessarie condizioni politiche adatte al raggiungimento della propria sicurezza geostrategica; la quale è strettamente legata all’ascesa dell’India, percepita costantemente come una minaccia. Inoltre, un ipotetico attacco militare ai gruppi islamisti metterebbe in forse, non solo il collante religioso in grado di mantenere unito il paese lacerato dalla conflittualità etnolinguistica, ma anche la legittimità stessa dello Stato; la storia del paese testimonia infatti le costanti pressioni esercitate dai gruppi clericali, molto importanti nella società, aventi come obiettivo l’ideale del Pakistan come puro “Stato islamista”. Il dialogo tra Pakistan e India potrebbe risultare a questo proposito il fattore determinante per la stabilità della regione. La rete Haqqani, la Shura di Quetta e altri organismi simili sono utilizzati non solo in funzione anti-indiana in Kashmir o direttamente in India, ma anche per gli interessi strategici pakistani in Afghanistan.

Il rapporto indo-pakistano potrebbe però avere nell’immediato futuro un andamento conflittuale. Nonostante infatti gli Stati Uniti abbiano pubblicamente criticato il Pakistan per l’appoggio offerto alla rete Haqqani, sembra che l’amministrazione Obama, a differenza del Pentagono e della CIA, stia cercando un dialogo con questa stessa organizzazione, promettendo delle cariche future governative a Kabul (Before Lashing Out, U.S. and Pakistani Intel Reached Out to Insurgent Group; BBC:Haqqani Says US Wants Him to Join Afghan Gov’t). Gli Stati Uniti per non compromettere la propria strategia in Afghanistan opterebbero dunque per una soluzione politica piuttosto che militare. E’ evidente come una simile prospettiva sia sgradita a Nuova Delhi, visto il carattere di organismo precipuamente anti-indiano della rete Haqqani e per i legami troppo stretti che si ristabilirebbero tra Islamabad e Washington. La recente visita di Karzai in India, con la firma a margine dei colloqui di importanti accordi militari e commerciali, va letta in questo contesto di riposizionamento delle alleanze regionali. Se gli Stati Uniti sembravano allontanarsi dal Pakistan, il quale si stava avvicinando sempre più alla Cina, in queste ultime settimane il rapporto tra Washington e Islamabad può aver trovato dei margini di miglioramento; dall’altro lato, l’India ha rafforzato il proprio legame con l’Afghanistan, ma soprattutto con Karzai e l’Alleanza del Nord, destando l’allarme del Pakistan. Islamabad osserverebbe la messa in atto di un possibile accerchiamento, visto che l’importante accordo commerciale firmato tra India e Afghanistan include l’Iran, il cui territorio potrebbe fare da transito per i prodotti indiani in Asia Centrale; area in cui Nuova Delhi è interessata ad aumentare la propria influenza. Tehran sembra aver riannodato i propri rapporti con Nuova Delhi, ma è chiaro che chiederà una conferma da parte dell’India della propria autonomia dagli interessi strategici statunitensi nell’area. Bisognerà comprendere se effettivamente Nuova Delhi intraprenderà questo diverso approccio. Tehran potrebbe comunque assumere un ruolo importante nella regione, nonché diventare un’ulteriore fonte di competizione tra India e Pakistan: in questo modo la strategia degli ultimi anni di contenimento regionale operata da Washington verso l’Iran risulterebbe fallita. Inoltre, l’Iran troverebbe un importante alleato nell’India nel prevenire l’ascesa a Kabul delle forze d’ispirazione wahabita, maggiormente connesse al Pakistan e alla rete Haqqani, visti i passati canali finanziari per l’organismo provenienti dalle monarchie sunnite del Golfo Persico.

La regione potrebbe dunque registrare un nuovo possibile scontro tra India e Pakistan per l’influenza strategica nell’Hindu Kush. Il dialogo tra i due paesi verrebbe sostituito dalla competizione in Afghanistan, così come avvenuto durante gli anni ’90, rendendo il quadro geopolitico dell’area sempre più complicato. In ogni caso, nonostante le preoccupazioni dell’alleato pakistano, gli Stati Uniti giudicherebbero positivamente l’aiuto militare indiano. Lo stesso Karzai ha comunque ricordato come sia necessario in primo luogo un colloquio diretto con il Pakistan.

Infine, Nuova Delhi ha siglato un importante accordo con Kabul per l’esplorazione indiana di minerali e idrocarburi presso il passo di Hajigak. Tutto ciò potrebbe destare non solo le preoccupazioni statunitensi, ma anche cinesi. L’aumentata influenza della Cina in Asia Centrale rappresenta, infatti, l’unica certezza dell’area. L’instabilità interna afghana potrebbe dunque comportare degli effetti negativi anche per gli interessi della Cina, vista la recente acquisizione dei diritti d’esplorazione per i giacimenti di petrolio nel relativamente tranquillo nord-ovest dell’Afghanistan.

 


*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

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